Save the
children Italia ha recentemente pubblicato e anche presentato al Senato della
Repubblica (18 settembre 2012) un rapporto che si intitola Mamme nella crisi (scaricalo qui).
Si tratta di un'analisi interessante; e molto interessante è anche che qualcuno
scriva di queste cose.
La prima
parte del rapporto riprende il quadro giuridicho e culturale del rapporto tra
maternità e lavoro in Italia, mentre la seconda analizza la situazione attuale.
Non tutto è condivisibile, alcuni presupposti soprattutto (per me, contraccezione e interruzione volontaria di gravidanza sono due cose da distinguere
e non mi sento di etichettarle insieme come 'controllo della fecondità';
curioso che lo faccia un’organizzazione denominata “save-the-children”). Ma il
rapporto è un quadro coraggioso, vicino ai problemi reali (inclusi asili,
rapporti familiari, numero di figli, lavoro part-time ecc.). E poi, alcune
analisi sono sorprendenti. Si cancella per esempio, con un solo sguardo ai
dati, l'idea che sia il Nord ricco ed educato ad avere meno figli. La tendenza
sembra essere opposta: chi fa più fatica a trovare lavoro, ha meno figli. Al
sud, si fanno meno figli che al nord. Il rapporto, cioè, traccia una
correlazione esplicita tra solidità del lavoro (che può voler dire, possibilità
di un part-time che non porti all'infarto ogni cinque minuti la sventurata
lavoratrice, magari per il principio di flessibilità, che poi finisce per significare "essere
disponibili sempre") e numero di figli, che sarebbe direttamente proporzionale, appunto, alla solidità del lavoro.
[A dire il
vero, avevo letto altrove che in tempi di crisi le donne fanno più figli perché
hanno meno certezze di prospettive lavorative. E anche questo, lo capisco
benissimo. Perché fare sacrifici per un lavoro che stai per perdere? Senza un
minimo di respiro, almeno, se può, uno vive il presente; o coglie l'occasione
per chiedersi cosa desidera veramente e la risposta può essere inaspettata.]
Il rapporto
di Save the Children Italia - poi la smetto, è l'ultima considerazione - lascia
intendere che tutto ciò sarebbe un problema di arretratezza italiana, in
ritardo rispetto ad altri paesi europei. Alcuni dati (per esempio, sulla
diffusione del part-time) sembrano confermarlo. Ma non me la bevo del tutto.
Quando ho cominciato a riflettere su queste cose, cioè quando ho cominciato a
mettere in crisi l'immagine di me sul lavoro che mi ero formata, ho letto un
libro, "Mama, Ph.D.", che parla di donne reduci dalla carriera
accademica - alcune, ancora in servizio; altre, totalmente reinventare dopo la
maternità. Una delle storie si intitola One
of The boys, “una dei ragazzi”/ “una dei maschi”; ed è una storia tipicamente
americana. Storia di graduate school, mobilita accademica. Un mondo di uomini e
donne uomificate (passatemelo, il
termine, è bello così) dove la protagonista, al solo apparire di una leggera
pancetta per la prima gravidanza, vede gli sguardi di colleghi e professori
trasformarsi in un continuo scrutinio. Ce la farà? A poco serve il fatto che
lei fosse considerata la migliore fino a quel momento. Nei corridoi
dell'università, quello che tutti credono è che all’aumentare della pancia
diminuisca il cervello. Lo so bene anch’io. E non lavoro in Italia.